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Integrazione, dal poster alla banlieu

Ad Alter facciamo comunicazione integrata, e in questi giorni la parola integrazione assume significati sempre più urgenti e universali che meritano una riflessione.
Ammettiamolo: l’integrazione ha fallito.

Ha fallito negli Stati Uniti, dove non sono serviti il sacrificio di Martin Luther King, di Malcom X, il successo pubblico di Michael Jackson, Ray Charles e Morgan Freeman, il primo Presidente afroamericano Obama. A centocinquant’anni dalla fine della schiavitù, si deve ancora parlare di integrazione tra neri e bianchi come se cercassimo di mescolare acqua e olio; di afroamericani morti a opera di polizia bianca; di scontri razziali e di vittime innocenti da entrambe le barricate come se fossimo nel razzista sud degli anni Sessanta. Evidentemente non hanno aiutato l’America razzista capolavori in pellicola girati dall’altra America, quella di La calda notte dell’Ispettore Tibbs, Malcom X, Mississippi Burning, Il momento di uccidere, Indovina chi viene a cena, Amistad…

L’integrazione ha fallito in Francia, dove le banlieu sono diventate pericolosi alveari in cui fomenta l’odio, vere e proprie fucine per attentatori del futuro.

Luoghi denunciati già da decenni – basti ricordare il bellissimo film L’Odio di Mathieu Kassovitz, datato 1995 – ma che sono stati lasciati a sé stessi, come se l’integrazione fosse una questione di tempo, di semplice attesa; di naturale evoluzione svincolata dall’impegno dello Stato.

Ha fallito nei territori in Palestina, dove una convivenza tra palestinesi ed israeliani sembra al di sopra delle capacità umane; come una lotta tra divinità che prescinda la buona volontà umana.

Ma cosa è integrare? Dal latino integrare, integro, che vuol dire intero. Quindi rendere intero. Cioè completare un soggetto con quanto gli manca; inserirlo nel contesto in modo che l’uno completi l’altro. Per noi di Alter, significa raccontare la comunicazione di un film in uscita con una lingua comune a tutti i diversi elementi che la raccontano, dal trailer al poster, dai titoli alla campagna social.

Per il resto del mondo, troppo spesso “integrare” è metafora di “cacciare a forza un tappo tondo in un buco quadrato”.

Non possiamo ancora credere, nel 2016, che per inserire una persona, un essere umano, in un contesto che non è quello di nascita, basti mettercelo, e poi la natura farà il resto. Questo è un equivoco, scambiamo la capacità di adattamento con la capacità di inserimento; ma nell’adattamento, la natura ci spinge verso gli istinti primordiali, verso la legge del più forte, verso mere tecniche di sopravvivenza. Questa è una condizione che non può durare in eterno. Dopo una generazione, lo scontento logora, fa marcire qualunque briciolo di amore maturato verso il contesto ospitante.

La gente di colore è arrivata in America come riserva di schiavi. I magrebini sono arrivati in Francia e in altri paesi europei con importanti (e benvoluti) flussi migratori dagli anni Cinquanta in poi, perché serviva un’enorme forza lavoro in miniera e nell’industria che ricostruisse un continente devastato dalla Seconda Guerra Mondiale.

Con le dovute distanze, entrambi i gruppi – schiavi neri, operai nordafricani – sono stati portati dalle catene o dalla necessità in luoghi estranei, spesso ostili. Il modello assimilazionista francese è basato sull’idea di integrazione che lo Stato debba considerare tutti i cittadini uguali a prescindere dalla cultura di origine, che può sembrare la cosa più democratica ed equilibrata del mondo, ma che in verità, in più di mezzo secolo di esempi, ha prodotto più discriminazione che equilibrio.

Paradossalmente, il paese nato sui principi di Eguaglianza, Libertà e Fratellanza, crede di fare integrazione azzerando il retroterra culturale di chi ha lasciato la propria terra non per turismo ma per necessità.

Darwin ha dimostrato che la vita si sviluppa verso la complessità e la diversità; ma il diverso, l’alter è sempre una minaccia se viene per predare, o semplicemente si presenta senza invito, o se ti strappa via da casa tua, o se devi lasciare il tuo paese e l’alter ti accoglie a casa sua solo perché deve, a denti stretti, bene che vada in un clima di tolleranza. Che parola orribile, tolleranza! Devo tollerarti, cioè devo mandare giù il fatto che tu esista e sei qui, tremendamente diverso da me, con le tue usanze, il tuo Dio, le tue spezie, la tua pelle. Ma dobbiamo essere tutti openminded, no? volerci bene e dichiararci amici del mondo intero, giusto? Che figura faremmo sui social, o all’aperitivo, se esprimessimo apertamente: tutti i mussulmani sono terroristi?

Quanto ci farebbe paura l’alter, l’uomo nero, il saraceno, il musogiallo, il barbarossa, l’alieno, se ognuno vivesse bene a casa propria e non avesse bisogno di cercare cibo, tetto, sicurezza altrove? Saremmo predoni dei vicini se in casa nostra non mancasse nulla? E temeremmo davvero la diversità, se da essa non ci sentissimo minacciati?

Mi confidava un amico sardo, una volta: “Noi sardi siamo più montanari che gente di mare nonostante abitiamo su un’isola, perché dal mare sono sempre venuti solo guai”.
Scherzavano Elio e le storie tese, tempo fa: “L’integrazione va fatta a tutti gli effetti, senza se e senza ma, basta che ognuno stia a casa propria.” Meglio riderci, visto che tanti nostri nonni sono stati emigranti, e in mezzo a una maggioranza di silenziosi, onesti lavoratori, c’è stato anche chi, purtroppo, ha esportato il peggio dell’italianità.

Pensiamo a quanto si siano integrati i nativi sudamericani a chi li ha invasi: lo spagnolo è diventata la loro lingua azzerando quelle autoctone, agli effetti devastanti che ha sugli inuit dell’Artico il modo con cui la società danese li emargina da decenni (preziosissimo per immaginarlo il romanzo Il Senso di Smilla per la Neve di Peter Hoeg), all’alcoolismo diffuso nelle riserve “indiane” d’America (strano termine, a 500 anni dal viaggio di Colombo).

La diversità arricchisce ma solo quando scegliamo di confrontarci tra diversi. In ogni altro caso, se il contatto tra noi e l’alter è inevitabilmente forzato, allora dovremo inventarci qualcos’altro.

Una formula nuova, inedita, finalmente moderna, degna del secolo in cui viviamo, che magari attinga qua e là a esempi del passato anche inaspettati, come il modello dell’Impero Romano, che con tutti i suoi enormi squilibri ed ingiustizie, perlomeno garantiva libertà di culto alle popolazioni sottomesse. Modernità o semplice furbizia?

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