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La creatività non è quel che sembra

Ognuno, da giovane, fa il suo personale percorso per scegliere il mestiere che farà, spesso per tutta la vita. Per alcuni può essere il mestiere del padre o un’occasione che si presenta casualmente, o semplicemente quello che tutti si aspettano; per altri una passione, un innamoramento, un destino da seguire a tutti i costi.

Per altri, come me, può essere un abbaglio. Un fraintendimento.

L’ho scelto per motivi futili, eppure per motivi essenziali, sciocchi e filosofici al contempo. Quel tipo di ragionamenti che si fa da giovane. L’ho scelto perché era un lavoro che si poteva fare senza mettersi la giacca e la cravatta, e questa cosa mi dava l’illusione che nel farlo non mi sarei integrato veramente nella “società borghese”, che ne sarei rimasto fuori, alla giusta, sorniona distanza. Ma soprattutto l’ho scelto perché era un mestiere che si poteva fare da soli. Chiusi in una stanza, o nascosti in un giardino, da soli con il proprio estro e il proprio umore, comunque via dalla pazza folla.

Almeno così pensavo all’epoca, con in mente la figura del creatore solitario, dell’artista che esprime se stesso attraverso la sua arte e le sue opere, che racconta la sua visione del mondo.

Ma non era così, l’ho scoperto giorno dopo giorno, a volte con piacere a volte meno, l’ho scoperto lavorando.

Perché la creatività è una materia complessa, forse la più complessa e sfuggente. Perché creatività, si dice, è divergere, è pensare “altro”, è insight improvviso e fulminante, è pensiero laterale.

Ma poi laterale a cosa? A se stessi, in perfetto solipsismo, o agli altri? E quali altri, l’indistinta massa di tutti quelli che sono altro da te, o gli altri che più semplicemente ti stanno intorno e condividono con te un percorso quotidiano di studio e di lavoro?

Ma ancora prima, di cosa parliamo quando diciamo “creatività”? Parliamo semplicemente di fantasia, come sostiene il dizionario Treccani online (virtù creativa, capacità di creare con l’intelletto, con la fantasia)? Oppure non ci basta la fantasia, perché la capacità di creare qualcosa di nuovo diventa rilevante solo quando questo qualcosa è valido, interessante, bello, importante (“La creatività è un fenomeno attraverso il quale viene creato qualcosa di valido e nuovo”, come si dice nella versione inglese di Wikipedia)? Certo, la fantasia senza freni che crei una specie di lallazione intellettuale sarà magari importante per la serenità psicologica di chi la fa, ma cosa aggiunge al mondo, cosa dà agli altri? Insomma, ci è utile? Ed ecco la definizione, sintetica ed efficace, che Anna Maria Testa ha mutuato da un matematico, Henri Poincaré: creatività è creare qualcosa di nuovo e utile. Se non ci sono entrambe le cose non siamo di fronte a un atto creativo, siamo magari di fronte a qualcosa di importante, o di bello, ma non di creativo.

Creativo, quindi, è quello che ci sorprende perché prima non c’era, o così almeno ci sembrava, e che ci soddisfa perché ci possiamo fare qualcosa, perché era quello che ci serviva per risolvere un problema, uno dei tanti.

E questa definizione è perfetta per il nostro mestiere, per la creatività commerciale, per quella creatività che parte dai fatti, dalle cose, dalle esigenze di un cliente, e da lì spicca il volo, o almeno ci prova, e crea, inventa, trasforma e ripropone e, quando ci riesce, sorprende e soddisfa.

E qui mi fermo solo per pigrizia, perché le definizioni sono infinite e il tempo no, e se qualcuno vuole leggerne di nuove le trova sul nostro sito, ad ogni refresh ne scoprirà di nuove. Siamo debitori ad Anna Maria Testa anche di questi aforismi, come di tanti altri strumenti del nostro mestiere.

Ma torniamo all’inizio, a come si arriva all’atto creativo, perché questo è il punto: c’è un sistema, c’è una via da percorrere per garantire un risultato, per trovare soluzioni creative per tempo e nei modi corretti? Insomma, la creatività ha un metodo?

Per me sì, per me la creatività è un metodo, anche se questo metodo, purtroppo non garantisce più di tanto, l’insight è sempre un atto individuale, è vero. Però aumenta di molto le probabilità di riuscita, e questo è già molto. Mette tutti in condizione di averlo, questo benedetto insight.

E questo metodo è un modo di lavorare e insieme un modo di guardare il mondo, questo metodo è fatto di tante persone, di tanti cervelli e di tante anime, di scontro e incontro, di percorsi fianco a fianco e di sorpassi azzardati, di isolarsi e ritrovarsi ogni volta diversi per chiedersi dove si è stati nel frattempo, cosa ci è successo, cosa abbiamo imparato, cosa regaliamo all’altro, alla sua creatività. Alla nostra creatività.

Perché la creatività e nel dialogo, è nel farsi sorprendere, è nell’essere sempre curiosi dell’altro. Con buona pace del ragazzino che voleva star da solo perché gli altri erano troppo impegnativi. Gli altri sono impegnativi, continuano ad esserlo anche ora, ma proprio questo è il bello. Se ti sembra di non capirli, gli altri, è proprio lì che devi esserne contento, perché nello sforzo di capirli troverai tante altre cose che non sapevi nemmeno di stare cercando.

Ecco perché ho dato vita a questo studio, a questa esperienza nuova. Per creare un’atmosfera in cui la creatività fosse di casa, in cui un gruppo di lavoro si nutrisse ogni giorno dell’intelligenza e dell’umanità degli altri, in cui il risultato finale fosse sempre figlio di tanti padri, in cui la ricerca e il divertimento andassero sempre di pari passo.
Perché la creatività, in fondo, è giocare con gli altri.

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